Diversi anni fa, mentre su un autobus attraversavo le strade affollate di Nuova Delhi, il mio sguardo fu rapito.
Davanti a uno slum, tra baracche di lamiere accatastate e immondizia che sembrava fondersi con il suolo, vidi una bambina.
Non poteva avere più di sei anni, con indosso una maglietta strappata, i piedi nudi che si immergevano nella polvere.
Giocava con degli amichetti, i loro giochi erano un caos gioioso, un’ubriacatura di niente, pura vita che esplodeva in un mondo fuori dai margini.
Quella bambina aveva il sorriso più luminoso che abbia mai visto.
Non era un sorriso qualunque: era una scintilla che sfidava la miseria intorno a lei, come un fuoco acceso nel buio.
Si fermò solo per un istante, guardando l’autobus che passava e poi tornò al suo piccolo universo.
Per lei non c’era nulla di più urgente, nulla di più importante di quel momento: il gioco e la presenza dei suoi piccoli complici.
Non fu solo il sorriso a colpirmi, ma la sua totale inconsapevolezza di non avere nulla. Per lei, quel niente era già tutto.
I suoi amichetti si rotolavano a terra, ridevano, si rincorrevano in un mondo che per noi sarebbe fatto solo di privazioni, ma che per loro sembrava completo, perfetto.
Un mondo misero, sì, ma ricco di una felicità primitiva e autentica, privo del peso delle aspettative e delle illusioni di un altrove migliore.
Noi, che abbiamo tutto, ci perdiamo spesso in ansie, desideri che non ci appartengono, sovrastrutture che soffocano la nostra capacità di sentire.
Eppure, in quello slum, in mezzo alla polvere e al nulla, quella bambina e i suoi amici vivevano un istante di pura libertà, una felicità che non chiedeva permesso.
Erano vivi, semplicemente.
È strano come la consapevolezza della nostra condizione possa essere al tempo stesso una benedizione e una maledizione.
Da un lato ci spinge a migliorare ciò che non va, dall’altro ci intrappola, rendendoci prigionieri di un’inquietudine cronica, incapaci di vedere che il presente, a volte, è già abbastanza.
Non si tratta di rassegnarsi, ma di riconoscere che la felicità non è un punto d’arrivo, ma il modo in cui camminiamo.
In fondo, non serve molto per essere felici.
A volte basta solo un sorriso nella polvere.